2. Piattaforme informatiche e condizioni generali di contratto
Il problema della responsabilità aquiliana dei gestori delle piattaforma informatiche è stato in parte limitato dalle regole di private orderingche governano questi servizi. Il passaggio da un internet “aperto” ad un internet “proprietario”, come si accennava in apertura, ha determinato che gli utenti abbiano incasellato le proprie comunicazioni all’interno di “recinti chiusi”, come i social network o le piattaforme video.
In questi casi, gli utenti, per poter utilizzare i servizi offerti, devono accettare le condizioni generali di contratto, unilateralmente predisposte dai gestori: condizioni generali che prevedono sempre clausole di manleva da ogni responsabilità per i contenuti pubblicati sulla piattaforma, nonché la possibilità per i gestori della piattaforma di rimuovere qualsivoglia contenuto che sia ritenuto non solo illecito, ma anche inopportuno, a loro insindacabile giudizio e a prescindere da un’eventuale segnalazione di terzi.
Questo profilo, inevitabilmente, si riverbera in una prospettiva globale, che non può non considerare il potere assunto dai cc.dd. OTT (over the top) ossia dai grandi operatori delle reti telematiche, che, nel corso degli anni, sono riusciti a coniugare una straordinaria crescita economica ad un ruolo di arbitri sulla liceità (o, per meglio dire, sulla opportunità) dei contenuti veicolati dal più grande mezzo di comunicazione di massa e di detentori di repertori pressoché infiniti di contenuti e informazioni (un’altra clausola ricorrente nei terms of service delle piattaforme è, infatti, quella che assegna alla piattaforma stessa una co-licenza, valida per tutto il mondo, su quello – video, testi, immagini – che è pubblicato dagli utenti).
Per evidenti ragioni di spazio, non possiamo poi considerare i profili legati alla tutela dei dati personali, ma è evidente che le informazioni raccolte da piattaforme video e da social network sono in grado di restituirci un profilo dettagliatissimo degli utenti di questi servizi: basti pensare ai famigerati “like” alle pagine Facebook, che ci raccontano gusti e preferenze, non esclusivamente commerciali, spesso svelando dati, anche di natura sensibile, di coloro che, con eccessiva disinvoltura, utilizzano i social network.
Il tema dei big data, l’aggregazione di informazioni personali è da tempo sotto la lente di ingrandimento delle istituzioni comunitarie e delle autorità garanti nazionali, che hanno evidenziato i rischi derivanti dalla profilazione indiscriminata degli utenti.
Ritornando al tema della responsabilità delle piattaforme internet, la modesta casistica giurisprudenziale evidenzia come gli strumenti di autoregolamentazione abbiano offerto una risposta adeguata, aggirando le lungaggini e i costi delle azioni giudiziarie.
Molti operatori hanno previsto dei modelli di notifica e rimozione privati, modellati su quelli legislativamente previsti dalla normativa statunitense in materia di copyright, che si sono rivelati molto efficienti e semplici da utilizzare. Basti osservare i report mensili pubblicati da Google, da cui risulta un incremento delle segnalazioni fatte dai titolari dei diritti e una rimozione rapida di un gran numero di contenuti pubblicati dagli utenti sui servizi della società di Mountain View (incluso YouTube): negli ultimi tre anni, dal 2013 ad oggi, si è passati da sei a oltre venti milioni di URL rimossi, a dimostrazione del fatto che i titolari dei diritti d’autore preferiscono agire per questa via anziché ricorrere alle tradizionali vie giudiziarie.
Questa rapidità, come già si accennava, è resa possibile dai terms of service dei servizi di Google (così come degli altri gestori di piattaforme), che autorizzano la rimozione dei contenuti ancor prima dell’accertamento della violazione. Google, infatti, si limita a comunicare l’avvenuta rimozione all’utente che ha caricato sulla piattaforma il contenuto, il quale, se riterrà che un suo diritto è stato leso, potrà indirizzare le proprie doglianze direttamente al segnalante. Il medesimo discorso può essere fatto anche per Facebook, l’altro “colosso” di internet, la cui “Dichiarazione dei diritti e delle responsabilità”, cui gli utenti aderiscono, prevede espressamente, al punto 5, che il social network si riserva “il diritto di rimuovere tutti i contenuti o le informazioni che gli utenti pubblicano su Facebook, nei casi in cui si ritenga che non rispettino la presente Dichiarazione o le nostre normative”. Pare opportuno osservare che non si parla di violazione di una legge dello Stato, ma delle (non meglio specificate) “normative” di Facebook: in altri termini, la piattaforma, che è titolare dello “spazio telematico” assegnato agli utenti, si riserva un diritto assoluto e incondizionato di rimuovere, a proprio piacimento, i contenuti pubblicati, a prescindere dalla loro effettiva liceità.
Un altro esempio è rappresentato dall’esperienza, invero virtuosa, del Vero Program di eBay, un accordo che consente ai titolari di diritti di proprietà intellettuale e industriale (marchi, diritto d’autore, ecc.) di segnalare eventuali beni messi all’asta dagli utenti, che violino i propri diritti. EBay, una volta ricevuta la notifica dal partner dell’accordo, rimuove immediatamente l’asta, comunicando la decisione all’utente. Anche in questo caso, non c’è un accertamento sulla effettiva legittimità della segnalazione dei rights-owners e la rimozione è espressamente autorizzata dalle condizioni generali di contratto cui aderiscono gli utenti.
Se, quindi, i casi giudiziari che hanno coinvolto i gestori delle piattaforme sono isolati e oramai datati, deve tuttavia osservarsi che maggiori problemi si sono registrati con gli aggregatori di link (collegamenti ipertestuali) e, in special modo, con quelli che consentono lo streaming di opere audiovisive (film, telefilm, serie tv, e così via enumerando) o di eventi sportivi.
Inizialmente, la giurisprudenza straniera ha adottato un approccio, per dir così, morbido. Alcune decisioni hanno, infatti, statuito che la semplice messa a disposizione ad un pubblico indiscriminato non configurerebbe un’ipotesi di comunicazione al pubblico, ai sensi dell’articolo 3, par. 1, della direttiva 2001/29 sul diritto d’autore nelle reti telematiche, con conseguenziale non responsabilità del gestore della piattaforma (in questo senso sia Crown Court Gloucester, 6 febbraio 2010, TV Links, che Audiencia Provincial de Madrid, 27 aprile 2010, Rojadirecta).
Più interessante (e, a parere di chi scrive formalmente più corretta) è stata poi la lettura offerta in altre decisioni, in cui si è rilevato che il gestore della piattaforma, che si limita a raccogliere i link pubblicati dai propri utenti, non sarebbe nella condizione di rilevare se tali contenuti siano resi disponibili al pubblico in virtù di un accordo di licenza tra il titolare originario dei diritti sulle opere in streaming e i soggetti che, materialmente, effettuano l’uploading di tali contenuti (cfr. Viacom Int. Inc. v. YouTube, U.S. District Court, District Court of New York, 23 giugno 2010); in altri casi ancora, si è invece ritenuto che la “conoscenza effettiva” dell’illiceità dei link e dei relativi contenuti ad essi associati, necessiterebbe comunque di un accertamento, relativo a tale illiceità, da parte dell’autorità giudiziaria (cfr. Juzgado de lo Mercantil de Madrid, 22 settembre 2010, Telecinco c. YouTube).
La giurisprudenza italiana ha assunto un atteggiamento antitetico. Nel caso CoolStreaming, la Cassazione penale, con sentenza n. 33945 del 4 luglio 2006, ha statuito che “Pubblicare su un sito Web dei links a server di emittenti TV estere che hanno acquistato da terzi il diritto di trasmettere eventi sportivi via Internet localmente, e mettere a disposizione dei visitatori del sito le informazioni ed i mezzi tecnici (come il software) necessari per visionare detti eventi, costituisce per i gestori del sito condotta penalmente rilevante ai sensi dell’art. 171 c.1 della Legge 22 aprile 1941 n. 633”. La Suprema Corte non ha fatto alcuna distinzione sul soggetto che, materialmente, aveva pubblicato i link in questione, assimilando la posizione del gestore della piattaforma a quella dell’utente, avviando un indirizzo seguito poi anche dalle corti di merito (ad esempio, Trib. Milano, 7 gennaio 2010, nel caso TvGratis). In termini simili, del resto, si era pronunciata anche la giurisprudenza spagnola, con decisione del Tribunal Supremo, Sala de lo Civil, del 10 febbraio 2011, seguita poi dalle ordinanze dei Tribunali di Roma e di Milano su Rojadirecta, il portale spagnolo che consente la visione in streaming di eventi sportivi. Anche in questo caso, la responsabilità del gestore della piattaforma è stata ravvisata nella circostanza che lo stesso offrisse servizi ulteriori, segnalando agli utenti su quali siti, che trasmettevano gli eventi, il segnale era stabile e quindi la visione dell’incontro sportivo poteva essere fruito con una buona qualità.
Peraltro, in questi casi si è intervenuti bloccando l’IP del sito e non consentendo l’accesso alla piattaforma dal territorio italiano. Una misura che, alla luce della giurisprudenza comunitaria, potrebbe apparire sproporzionata: al riguardo, non può che ricordarsi quanto affermato dalla Corte di Giustizia nel caso Telekabel (C-314/12), che, nell’intervenire sulla posizione di un access provider, ha stabilito che “le misure adottate dal fornitore di accesso ad Internet devono essere rigorosamente mirate, nel senso che devono servire a porre fine alla violazione arrecata da parte di un terzo al diritto d’autore o a un diritto connesso, senza pregiudizio degli utenti di Internet che ricorrono ai servizi di tale fornitore al fine di accedere lecitamente ad informazioni. Nel caso contrario, l’ingerenza di detto fornitore di accesso nella libertà di informazione di tali utenti sarebbe ingiustificata alla luce dell’obiettivo perseguito”.